La Manna dell’Anima - Lectio divina - P. Paolo Segneri

AGOSTO

 

XIV. GIORNO

Qual protezione prenda iddio delle anime giuste.

« Justorum animae in manu Dei sunt, et non tanget illos tormentum mortis. Visi sunt oculis insipientium mori, et aestimata est afflictio exitus illorum, et quod a nobis est iter, exterminium; illi autem sunt in pace. — Le anime de’ giusti sono in mano di Dio, e non le toccherà il tormento di morte. Dagli occhi degli insensati sono stati veduti morire, e la loro uscita è stata riputata afflizione, ed il loro viaggio, sterminio; ma eglino sono nella pace » (Sapienza 3 1, 2, 3).

 

I.

Considera come i giusti, sino che vivono, non fanno altro, che offerire al Signore incessantemente l’anima loro. Però siccome il Sacerdote tien l’Ostia su le sue mani, quando l’offerisce a Dio dall’Altare con quelle voci : « Suscipe Sancte Pater hanc immaculatam Hostiam, etc. — Santo Padre, ricevi quest’Ostia immacolata, ecc. », così pur de’ giusti si dice, che a tal effetto su le loro mani anche essi tengono la loro anima : « Anima mea in manibus meis semper — L’anima mia è sempre nelle mie mani ». Finito poi l’atto di offerire, ch’è all’ultimo della vita, trapassa l’anima dalle mani de’ giusti a quelle di Dio, come vi trapassa anche l’Ostia offerta ch’ella è già, dalle mani del Sacerdote. E questa è la propria ragion, per cui qui si dice: « Justorum animai in manu Dei sunt — L’anime de’ giusti sono in mano di Dio » perchè qui, come vedesi dal contesto, si favella de’ giusti ch’hanno già finito di vivere, e che conseguentemente han finito ancora di fare la loro offerta, sì cara a Dio. Finchè essi vivono, si dice più giustamente, che il Signore tien le sue mani su le lor anime : « Posuisti super me manum tuam — Ponesti sopra di me la tua mano » (Salmo 139, 5), perciocchè allora tempo è di proteggerle. Poichè son morti, più giustamente si dice, ch’egli tiene l’anime loro su le sue mani : perciocchè allora non è tempo più di proteggerle, ma di accoglierle, ed a qual fine? Affine di accarezzarle, affin di arricchirle, affin di premiarle, ch’è quanto dire, affine di coronarle quali vittime trionfali. Oh te beato, se sarai dunque ancora tu di questi giusti, che fanno a Dio del continuo così gradita oblazion dell’anima loro! Mira che bel premio n’avrai! Ne andrai tu ancora a posarti su le sue mani : « Justorum animae in manu Dei sunt — Le anime de’ giusti sono in mano di Dio ».

II.

Considera come qui singolarmente favellasi di quei giusti, i quali hanno patito assai, come sono i Martiri, o altri, che in questo mondo si sono per Dio ridotti a vita stentata, povera, penitente, mortificata. Questi sì che gli han fatta una oblazion solenne di se medesimi : e però egli tanto più ha cagione alla morte loro di accogliere le lor anime su le mani, e di portarsele seco quali Ostie care alla gloria del Paradiso, mentr’ egli mirale uscir fuora da un corpo, o sì piagato, o sì pesto per amor suo. Quindi senti dire, che questi giusti muoiono sì contenti, che neppur sanno, per dir così, ciò che sia tormento di morte : Non tanget illos tormentum mortis. Si scorgono allor essi già prossimi al loro trionfo, e però hanno piuttosto occasion di gioire, e di giubilare, che di attristarsi. Se dopo morte dovessero eglino cader giù nelle mani di Satanasso, in compagnia di coloro, che hanno voluto il loro Paradiso di qua, come l’Epulone: « Receperun t bona in vita sua — Hanno ricevuto bene nella loro vita »; qual dubbio v’è, che morrebbono scontentissimi? Ma mentre sanno di dover con Lazzaro, il quale « recepit mala — ha ricevuto male », esser portati gloriosamente dagli Angeli a riposar tra le mani di Dio medesimo, non che del gran Padre Abramo; oh come muoiono allegri! « Laetare Zabulon — Rallegrati, o Zabulon » : Tribù nell’Egitto sì abbietta, e sì affaticata, « laetare in exitu tuo —rallegrati nel tuo andare », perchè tu goderai le città più ricche, che posino lungo il mare : « et thesauros absconditos arenarum — e i tesori nascosti sotto le arene » (Deuteronomio 33, 18). Che se si vuole saper più distintamente, qual tormento sia questo, ch’è detto qui tormento di morte, tormentum mortis, basta mirar ciò che provano i peccatori a quel duro passo. Questo è un tormento formato di tre ritorte, una più penosa dell’altra, che allor si uniscono a stringere un cuore iniquo, e sono il passato, il presente, e il futuro. Il passato affliggerà gli empi con la molesta memoria, e di tanti mali che fecero, di tante crapule, di tante carnalità, di tante vendette, e di tanto ben che lasciarono di operare. Il presente gli angustierà con la vista di tanti oggetti amati ch’hanno a lasciarsi, come sono ricchezze, dignità, diletti, parenti, ma spezialmente con quella del corpo proprio, la separazione del quale ridurrà l’anima alle più crude agonie. E finalmente il futuro gli accorerà con l’aspettazion di quell’orrendo Giudizio, al qual hanno da comparire col carico sulle spalle di tante colpe. Un tormento per tanto così crudele non tocca i giusti, non tanget illos: particolarmente allor ch’ essi fecero a Dio quel sagrifizio sì solenne di sè, ch’ ora si dicea. Perchè quanto al passato, se hanno commessi de’ peccati, gli han pianti, e per quel poco ch’ hanno ancora potuto, gli han soddisfatti. Quanto al presente, hanno già il cuore molto prima staccato da tutto ciò, ch’hanno da lasciare. E quanto al futuro, se temono di se stessi, come consapevoli della propria miseria, confidano altresì, come certi della Misericordia di quel Signore, che su quell’ora gli chiama a sè con invito così amorevole. E posto ciò, chi non vede, che il tormento di morte non è per essi: non tanget illos tormentum mortis: mentre nessuna di quelle tre ritorte, che formano un tal tormento, con essi ha lena? Ma tu frattanto, se ti senti invogliare ad essere simile a loro in tanto beata morte, sai ch’hai da fare? Esser prima a lor simile nella vita, con fare a Dio quell’oblazion sì perfetta di te, che egli tanto premia : « Quare lacero carnes meas dentibus meis — Perchè mi lacero co’ denti le mie carni » (Giobbe 13, 14), se non per questo (diceva Giob, non mai sazio di aggiugnere pene a pene), « et animam meam porto in manibus meis — e nelle mie mani porto l’anima mia? ».

III.

Considera come da ciò, che fin qui si è detto, si scorge chiaro quanto s’ingannino tanti sciocchi mondani in dar giudizio di tali giusti già prossimi al loro morire. Pensano che questi alla morte provino un’amarezza terribile, e dopo morte un annichilamento totale. E pure è tutto il contrario. Però di tali giusti si dice quel che ora seguita : « Visi sunt oculis insipientium mori — Dagli occhi degl’insensati sono stati veduti morire », cioè, visi sunt mori ab oculis insipientium. Sono dagli occhi mal purgati di tanti, che non han fede, sono stati, dico, talor veduti morire, come in effetto morirono, e subito agli occhi stessi di que’ meschini la loro uscita è stata riputata afflizione, il loro viaggio sterminio : Et aestimata est afflictio exitus illorum, et quod a nobis est iter, exterminium. L’uscita è il transito, il quale senza dubbio a’ malvagi apporta afflizione, anche crudelissima, per i tre capi di sopra detti, che unisconsi ad angustiarli : passato, presente, e futuro. Ma a’ giusti non può recarla a cagione di ciò, che si è veduto : ond’è che tanti di loro su quel punto anche arrivano ad esultare, più che non fecero già gli Ebrei nell’uscir dalla cattività lagrimosa di Babilonia: « In convertendo Dominus captivitatem Sion, facci sumus sicut consolati — Quando il Signore fe’ tornare quelli di Sion dalla cattività, noi fummo come uomini ricolmi di consolazione » (Salmo 126, 1), non consolati assolutamente (perchè una piena consolazion non può aversi finchè non si giugne alla cara Gerusalemme), ma sicut consolati, perchè comincia una tal cara Gerusalemme a mirarsi ormai da vicino. Il viaggio poi chi può dire, che sia esterminio? Questo viaggio è quello che i giusti fanno in andar dalla terra al Cielo : iter a nobis ad Deum. Ma un tal viaggio da quei che non san giudicare se non da’ sensi, non è creduto. E però quello che in verità non è più che un mero cammino da un Mondo all’altro, da loro è riputato esterminio: Aestimata est afflictio exitus illorum, et quod a nobis est iter, exterminium; perciocchè pensano che al morire del corpo muoia anche l’anima. Ma qual errore o più iniquo, o più irragionevole? Non solo i giusti fan dopo morte per verità quel viaggio, che si dicea; ma lo fanno tale, che un trionfatore romano in tutti i passati secoli mai ne fece un simile a quello, allor che venne dalle Provincie debellate, e distrutte, ad esser coronato sul Campidoglio. Ma a credere un tal viaggio, che si richiede? non giudicare solamente con gli occhi, come fanno tanti insensati; giudicare con la ragione, anzi giudicare con quei principii di fede, che soli al Mondo non sono mai sottoposti a travedimento. Chiudi gli occhi, e vedrai che viaggio bello è questo de’ giusti, che pur da tanti è riputato esterminio : « Illic iter, quo ostendam illi salutare meum — Quello è il viaggio, per cui gli farò vedere la mia salute » (Salmo 50, 23), dice il Signore, cioè, « quo ostendam illi meipsum — per cui gli farò vedere me stesso », non « dabo — darò », perchè ciò si riserba al termine; ma solo « ostendam — farò vedere », ch’è quanto si concede alla via.

IV.

Considera come a maggior derisione di quel giudizio, che formano i cattivi fedeli intorno alla morte che fanno i giusti, conchiude il Savio, che questi non solo non sono andati, come tanti si credono, in esterminio, ma che di vantaggio si godono un’alta pace: Illi autem sunt in pace. La pace, quando nelle Scritture si esprime con un vocabolo sì generico, ha doppio significato, negativo, e positivo. Nel primo significa cessazione d’ogni male. E tal è in quel luogo : « Beati omnes qui diligunt te, Jerusalem, et qui gaudent super pace tua. — Beati tutti quelli che ti amano, o Gerusalemme, e godono della tua pace » (Tobia 13, 18), perciocchè, quasi spiegandosi una tal pace, si aggiugne subito : « Anima mea, benedic Dominum, quoniam liberavi! Jerusalem civitatem suam a cunctis tribulationibus ejus — Anima mia, benedici il Signore, perchè ha liberata Gerusalemme sua città da tutte le tribolazioni ». Nel secondo significa ancor più, perchè significa cumulo d’ogni bene : e tale è in quell’altro luogo : « Laetamini cum Jerusalem, et exultate in ea omnes qui diligitis eam, etc., quia haec dicit Dominus: Ecce ego declinabo super eam quasi fluvium pacis. — Congratulatevi con Gerusalemme, e con lei esultate tutti voi, che l’amate, ecc., poichè queste cose dice il Signore : Ecco che io volgerò sopra di lei come un fiume di pace » (Isaia 66, 10, 11, 12). E l’una e l’altra pace dovran quei giusti, di cui si parla, godere dopo la loro morte. Goderanno la cessazion d’ogni male, perchè a quell’ora sarà finito il patire : « Liberabit eos Dominus a cunctis tribulationibus eorum — Il Signore gli libererà da tutte le loro tribolazioni ». E goderanno il cumulo di ogni bene, perchè incominciar anno un’eterna vita, eterna bellezza, eterna sanità, eterna sapienza, eterne ricchezze : e per dir breve, eterna felicità : « Et declinabit super eos Dominus fluvium pacis — E volgerà sopra di loro il Signore come un fiume di pace ». Vero è, che in vece di dire : « Illi autem sunt in pace — Ma eglino sono nella pace », sembra che avrebbe il Savio potuto dire con termini assai più espressi : « Illi autem sunt in Regno Coelorum —Essi sono nel Regno de’ Cieli », perchè il Regno de’ Cieli egualmente bene comprende sì l’una e sì l’altra pace. Contuttociò nol disse per due ragioni. Prima, perchè a suo tempo i giusti quando morivano avean bensì la cessazion d’ogni male, con andare a godere la quiete del Limbo, dove allor riposavano tutti i buoni, ma non avevano il cumulo d’ogni bene, che solo vien dalla chiara vision di Dio; e però non avendo essi sino a quell’ora ambedue le paci, negativa e positiva, ma solo la negativa, non potea dire che fossero fin allor nel Regno Celeste, che unicamente le può dare ambedue, ma che lo aspettassero : « Servabis pacem, pacem quia in te speravimus. — Tu serberai la pace, la pace, perchè in te sperammo » (Isaia 26, 3). Dipoi, perchè questo nome di Regno Celeste in tutte le Scritture del vecchio Testamento non fu mai in uso. Il primo ad adoperarlo fu S. Giovanni il Precursore di Cristo, allor che alzando dal Giordano la voce, cominciò a dire: « Poenitentiam agite, appropinquavit enim Regnum Coelorum —Fate penitenza, poichè si avvicina il Regno de’ Cieli ». Innanzi a lui si parlava bensì del Regno de’ Cieli, ma sotto nomi più bassi, di terra di promissione, di città, di casa, di tabernacoli eletti, ma pur terreni, di ricchezze, di riposo, di vita, e così qui se ne parlò sotto questo nome di pace, benchè senza limitazione, perchè quantunque allora tutti quei giusti che dimoravano dentro il loro caro Limbo non avessero « in re — realmente », se non che la prima pace, cioè la sola cessazion di ogni male, contuttociò, come dicevamo pur ora, possedevano « in spe — in speranza » (e in spe non dubbiosa, com’è la nostra, ma soda, e stabile), ancor la seconda pace, ch’è il cumulo d’ogni bene, pacem, pacem. Se vuoi però tu conseguir questa doppia pace, che tanto vale, hai di presente da far a Dio sagrifizio di te medesimo, con offerire a lui del continuo l’anima tua, qual ostia a lui più gradita di mille armenti : « Sicut in millibus agnorum pinguium, sic fiat sacrificium nostrum in conspectu tuo hodie, ut placeat semper. — Qual sagrifizio di mille pingui agnelli, oggi sia la nostra offerta agli occhi tuoi, acciò sempre ti sia gradita » (Daniele 3, 40). Se farai così, egli alla morte tua piglierà una tal ostia su le sue mani, e se la terrà seco in pace: « et pacis non erit finis —e la pace non avrà fine » (Isaia 9, 7).

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