VITA
del P. PAOLO SEGNERI

Padre Paolo Segneri

Paolo Segneri nacque in Nettuno, terra del Lazio, il giorno 21 marzo dell’anno 1624. Ebbe per padre Francesco e per madre Vittoria Bianchi romana e fu il primo dei 18 figli che essi ebbero. Ancor fanciullo Paolo fu affidato ai Gesuiti del Collegio Romano perchè fosse istruito nelle prime lettere tra gli altri nobili alunni che lo frequentavano. Fu egli un modello di virtù tra i suoi condiscepoli e fece tali e sì rapidi progressi nello studio da poter argomentare fin d’allora quale doveva riuscire un giorno. Lo studio dell’ eloquenza era il suo studio prediletto. Ma gli istitutori che aveva, essendo essi fuor di strada, purtroppo vi conducevano pure i loro discepoli. Ciò non di meno quasi inspirato dalla sua buona natura, aborrendo le stranezze e le affettazioni del dire, rivolse ogni suo desiderio a divenire un sacro oratore. Frattanto deliberò di ascriversi alla Compagnia di Gesù e non senza difficoltà ne ottenne l’assenso dal padre, il quale aveva speranza di accrescere per mezzo di un tal figlio il lustro della famiglia. Pertanto egli si applicò indefessamente a quelle arti colle quali i Gesuiti sanno istruire i loro alunni, quelli segnatamente che destinano a conseguire fama di dottrina, e non passava giorno senza fruttuoso esercizio di oratoria disciplina. Volse in lingua toscana una Decade della storia del Belgio scritta in latino da Famiano Strada e andava spiegando spesso alcuno dei bei tratti delle Orazioni di Cicerone perchè si proponeva di formare sopra di esse il suo stile. Leggeva poi quegli scrittori che tengono il primato della facondia nell’idioma italiano, con tale amore, che di giorno in giorno il suo dire andava prendendo da essi forma e colore. Compiuti gli studi, da Roma passò in Toscana e si diede ad insegnare la grammatica a Pistoia : durante il quale esercizio, siccome non gli mancavano e tempo e mezzi, si applicava intensamente

a scrivere Sermoni e vi poneva tanta cura e tanto studio come se avesse dovuto darli alle stampe; imperciocchè condannò sempre l’imprudenza di coloro che nell’intraprendere l’ufficio di Predicatori si presentano al pubblico mal preparati e mostrano di tenere il pulpito come un luogo di esercizio e di studio. Poichè a questa occupazione si valeva di tutte le sue forze dell’ingegno e del corpo senza posa, cominciò a risentire frequenti mali di capo, onde gliene venne una molesta sordità. Egli però soleva confortarsi dicendo : Che male c’è nella sordità? Essa ci disgiunge dal consorzio degli uomini perchè possiamo più liberamente conversare con Dio. L’Italia a quel tempo non aveva alcun Sacro Oratore che egli potesse imitare e il gusto in ogni ramo della letteratura era talmente depravato, che tutti correvano dietro al vano e al gonfio: quindi egli si propose di riparare a così gran danno e farsi esempio agli altri. Ed in questo fu molto prudente perchè affine di cattivarsi gli uditori e di lusingare le orecchie avvezze a leziosi concetti, si applicò ad un genere di dire grande, copioso, splendido, pieno di sentenze e di affetti, adorno di tutti i fiori della lingua. Perciocchè gli erranti dovevansi ricondurre a poco a poco sulla retta via e allettare con quella maniera di ragionamento, che non fosse troppo lontano dai loro modo di sentire ed intendere. Laonde pensiamo che il Segneri non si debba troppo severamente giudicare se pure troviamo nelle sue opere qualche pecca del suo secolo: poiché dove abbondano i pregi appena appaiono i difetti, e nel Segneri i pregi sono tanti e tali, da potersi proporre per esempio di oratoria eloquenza. Nè l’eleganza sua consiste soltanto nello splendore delle parole ma anche nell’opportuna costruzione e nell’armonia e nella copia; il che era frutto di sommo ingegno e di lungo esercizio. Il suo maggior difetto fu quello di ricavare talora gli argomenti e le similitudini da false od inverosimili narrazioni, da incerti detti di antichi filosofi e da finzioni di poeti, come se per convincere e per commuovere non somministrassero sempre ricca messe di argomenti le Divine Scritture e gli Scritti dei Santi Padri, che pure egli aveva famigliarissimi. Soleva eziandio citare ed esporre le storie e le usanze degli antichi popoli per invigorire e adornare il discorso. Dei quali mezzi se avesse usato con parsimonia e, fidando le prove al robusto ragionamento e all’autorità dei Sacri Libri, avesse poi abbelliti gli argomenti colla magnificenza del suo dire, sarebbe stato giudicato il maggiore degli Oratori non soltanto fra gli Italiani, ma ancora fra quelli delle straniere nazioni. Certamente non vi fu mai chi comprendesse con maggior facilità una sentenza e l’esponesse con maggior proprietà di parole; chi narrasse le cose con maggior garbo ed eleganza; chi il vincesse in facondia nell’amplificare e adornare il discorso; chi più di lui sapesse dilettare gli uditori e (ciò che più importa all’oratore) dominare sugli animi e disporne a suo grado. Perciò non è meraviglia se, predicando egli nelle principali città d’Italia, gli uditori accorrevano in folla e rimanevano allettati dalla novità e meravigliati dalla robustezza di sua eloquenza, malgrado che non si potesse derivare alcun allettamento al suo dire dalla sonorità della voce e dalle grazie del gesto. Il Card. Sforza Pallavicino, il quale guidava, istruiva e proteggeva il giovane oratore non meno negli studi che in tutta la condotta della vita, vedendo in lui tante doti non dubitò di affermare in presenza di Alessandro VII che il Segneri sarebbe divenuto il ristauratore della Sacra eloquenza e che gli doleva di esser nato troppo tardi per poter vedere totalmente sbandita dai Sacri pergami per mezzo suo la barbarie.

E sì grande era l’impazienza di quel Cardinale per siffatta ristaurazione e tale la fiducia nella valentia del preconizzato ristauratore che volle ad ogni patto veder pubblicate colle stampe le Orazioni panegiriche dettate dall’oratore non ancor maturo. Nella qual cosa non dirò se gli abbia reso un buon servizio, perché non si può dissimulare che si cercherebbero invano in quelle orazioni la semplicità, la sobrietà e la castigatezza, mentre l’età e il secolo strascinavano l’autore alla ridondanza e alla licenza dell’immaginare e del dire. Ben maggior gloria ritrasse il Segneri quando, schivando pur sempre ogni taccia di ostentazione d’ingegno, consentì di dare alla luce nel 1679 un volume di Prediche recitate al popolo nella Quaresima, e lo dedicò a Cosimo III Granduca di Toscana, che più volte l’aveva ascoltato e dal quale aveva ricevuto grandi benefizi. Difatti con quella pubblicazione egli rese un servizio importantissimo alla patria sua lingua, all’eloquenza e alla religione. Nè il Segneri coltivò meno quel genere di ragionamento che meglio si accomoda alla capacità del popolo. Anzi bramando ardentemente di provvedere alla salute dei popoli, andò peregrinando pressoché per tutte le borgate d’Italia e dedicando tutte le sue cure all’Apostolico ministero.

Appena è credibile con quante fatiche e afflizioni di corpo, con quanta contenzione di animo, e con quanto vantaggio dei fedeli egli vi abbia perseverato per ben ventisette anni. Egli era riguardato come il riformatore dei costumi, nel cui potere stava il ricondurre i popoli traviati sulla via della verità e della virtù. Sebbene poi in quei Sermoni parlasse popolarmente non v’era alcuno anche fra i più dotti che non lo sentisse volentieri, non lo ammirasse e non se ne partisse migliore. Negli intervalli di riposo da queste e da altre occupazioni dell’Apostolato soleva ritirarsi nel Collegio dei Gesuiti in Firenze dove si diede a scrivere molte cose sopra tutti gli argomenti del vivere cristiano. Così nacque quell’ opera da tutti encomiata non meno per l’alta sapienza delle cose contenute, che per l’arte, non già oratoria, ma famigliare del dire, l’opera ch’egli volle intitolata: Il Cristiano istruito. Quanti vezzi di lingua italiana purissima, quanta eloquenza, quanta proprietà e quanta semplicità non regnano in quel libro! Quanta copia di ottimi documenti e di tutte quelle cose che i nostri Maggiori vollero che fossero per noi sacre e venerande! Non v’ha età della vita a cui non giovi con opportuni consigli, non virtù cui non rinfranchi ed assodi, non vizio d’ animo infermo e fiacco cui non appresti rimedio. Tanta dottrina esposta con tanta eloquenza fece sì che anche i più schivi critici non meno apprezzassero la piacevolezza e la leggiadria di quei semplici ragionamenti, di quello che la maschia ed elevata facondia delle sue più elaborate prediche. Anzi mentre molti trovano di che riprenderlo nelle sue prediche di genere elevato, nessuno sa desiderare alcun che in quest’opera che nasconde sotto le modeste sue forme un tesoro di sapienza, una ricca ed opportuna erudizione. Però il più insigne monumento della pietà singolare e della sapienza del Segneri furono quelle meditazioni e quegli affettuosi discorsi che egli faceva seco medesimo quando si poneva tutto solo alla presenza del suo Dio. Gli piovevano per così dire dal cielo i lumi nell’intelletto e gli affetti gli si affollavano nel cuore con gagliardi moti quando richiamava al pensiero gli augusti misteri della nostra fede e le divine sentenze della S. Scrittura. E caldo com’era di cristiana carità volendo rendere di comune utilità i suoi singolari trattenimenti con Dio li veniva scrivendo così come il cuore li dettava. In questa guisa nacque quasi per ispirazione 1′ aurea opera della Manna dell’anima, la quale benchè il titolo sappia un po’ del seicento, pure mirabilmente conviene al soggetto, perchè un’ anima che senta profondamente la pietà, vi trova un alimento salutare di vita eterna. E siccome tutti gli scritti dettati dal convincimento e dall’affetto, piuttosto che dal pregiudizio e dallo studio, portano seco 1′ impronta della vera eloquenza, così questo frutto spontaneo di calda pietà riuscì un esimio esemplare di lingua tutta italiana, sincera, armoniosa e gentile. Dopo di avere con tanta lode esercitata la sua facondia e nel più elevato genere di eloquenza e nel familiare didattico ragionamento e nel pensato ed affettuoso soliloquio, ci porse il Segneri un esempio di nervoso ragionare polemico. Ciò fece con quell’opera in cui prese a confutare gli increduli e a raccogliere tutte quelle prove che valessero non solo a distruggere ogni loro sofisma ma eziandio a togliere ogni pretesto, ogni scusa alla loro empietà. Quindi viene a buon diritto il Segneri annoverato tra i primi Apologisti della nostra religione fioriti nella nostra Italia. Finalmente abbiamo altre Opere non poche di minor mole dalla penna di lui, le quali tutte fanno fede non meno dell’altezza del suo ingegno che dell’eccellenza delle sue virtù. E mentre il semplice fedele venera in esse il banditore evangelico che è tutto zelo per la salvezza delle anime, il letterato e il dotto vi ammira l’esemplare purissimo della soave lingua nostra italiana. Per la qual cosa gli Autori del Vocabolario della Crusca attribuirono agli scritti del Segneri quell’autorità medesima di cui godono i Padri e Maestri della lingua pura ed elegante di cui va superba l’Italia. Nè poco ebbe da faticare per meritarsi tale onore. Ogni giorno consumava su quegli scritti quasi otto ore, e nel formare il discorso ricercava il giudizio dei più dotti e principalmente del Redi, di cui non vi fu scrittore più elegante, e questo non solo per la scelta ma ancora per la costruzione delle parole. E avendo ben impresso nella memoria quanto aveva letto nel Boccaccio e in altri più purgati Scrittori, si serviva di quelle cose che togliendo via il colore di antico accomodava alle orecchie della moltitudine e al gusto dei più colti uditori. E questa sua accuratezza nel comporre gli meritò di esser annoverato non solo fra gli autori citati dall’Accademia, ma anche fra i collaboratori stessi del Vocabolario: poichè, come si deduce dalle lettere del Segneri al Redi, egli fu incaricato di una parte rilevante in quella grande e gloriosa compilazione.

Crescendo poi sempre più la fama dell’esimio Predicatore in tutta Italia, dall’autorità dei suoi Superiori e del Pontefice Innocenzo XII fu chiamato a far prova dei suoi talenti oratori nel più luminoso teatro della Cristianità. Fatto Predicatore nel Palazzo Apostolico, egli non potè senza grave dolore cangiare il suo metodo di vivere e frenare quello zelo che lo portava a percorrere le terre ed i villaggi onde porgere al più rozzo popolo e più bisognoso la luce delle verità della Fede e il salutare sussidio della morale evangelica. Però egli si dedicò talmente al nuovo onorevole ufficio che fece vedere a quei venerandi Senatori della Chiesa non esservi altezza di argomento a cui non giungesse, nè gravità di uditorio cui non appagasse, talmente egli seppe esporre ed inculcare i sublimi documenti che debbono servire di norma ai reggitori della Religione Cattolica. Quindi v’ha chi osa affermare che le prediche fatte in quell’augusto consesso siano da preferirsi alle altre opere del Segneri perchè se queste appaiono talora troppo ornate e quasi imbellettate, quelle si mostrano tutto nerbo e maturità. Mentre così faceva risonare in Roma la sua voce ed ammirare la santità della sua vita, poteva egli sperare dalla munificenza del Pontefice, che lo amava, onori e dignità; se non che egli sfuggiva studiatamente siffatte cose, che gli uomini sogliono ardentemente desiderare, perchè conosceva quanto fossero vane in sè e quanta afflizione di spirito traessero dietro di sè. Perciò, solo sollecito della gloria di Dio e della salvezza delle anime, viveva quasi dimentico di sè stesso. Tuttavia non andò esente da invidia, ed il maltalento di alcuni non lasciò di amareggiare gli ultimi anni della sua vita. E’ noto quanto fossero vive in quei tempi tra i teologi le questioni sul probabilismo e quale parte avessero preso a sostenere i Gesuiti in quella contesa. Il Segneri fu accusato di essersi dimostrato troppo acre nel sostenere la causa dei suoi, la quale colpa viene di certo in parte smentita dalla soavità del suo carattere, in parte scusata dal filiale affetto che portava alla sua famiglia religiosa. Ma non sentendosi fatto per vivere alla Corte, e declinando le sue forze per le lunghe fatiche, più e più volte domandò al Pontefice che lo volesse liberare dal grave incarico di Predicatore Apostolico, il che finalmente ottenne colla condizione però che volesse ancor esercitare l’ufficio di Teologo, di cui era già stato insignito, nella Sacra Penitenzieria. Alla qual cosa si sottomise con qualche ripugnanza perchè il solo desiderio che aveva manifestato era appunto quello di potersi ritirare dal consorzio umano affine di prepararsi in pace alla morte che si appressava. Infatti già cominciava a languire, le digestioni si facevano difficili e le altre funzioni naturali poco regolari. Per rimediarvi gli venne suggerito di mutar cielo: ma la varietà del soggiorno nulla valse, anzi il male si fece ognor più grave. Pensò pertanto di restituirsi a Roma ove spirò il giorno 9 dicembre 1698. Siccome la sua vita fu un continuo modello di santità, e vivente fu tenuto per un angelo dato dalla Provvidenza per incremento della Fede, così morto fu da molti venerato con quel culto con cui la Chiesa suole onorare i Beati che volarono al cielo. Fu di mediocre statura, di corpo per costituzione e per esercizio robusto, di costumi e di maniere affabile ed umano, d’ingegno elevato ed acuto, in tutto finalmente temprato dalla natura per modo che si vedeva esser nato per cose grandi e sublimi.