MARZO
XIII. GIORNO
Sopra le Tribulazioni.
« Id quod in praesenti est nzomentaneum, et leve tribulationis nostrae, supra modum, in sublimitate, aeternum gloriae pondus operatur in nobis, non contemplantibus nobis, quae videntur, sed quae non videntur; quae enim videntur temporalia sunt, quae non videntur aeterna.— Quella, che è di presente momentanea, e leggera tribolazione nostra, uno smisurato, immutabile, eterno peso di gloria opera in noi; non contemplando noi quel che si vede, ma quel che non si vede. Imperocchè le cose che si veggono sono temporali, quelle che non si veggono eterne » (Seconda lettera ai Corinzi 4, 17, 18).
I.
Considera, che non dice « tribulatio — tribolazione », ma « id quod in praesenti est tribulationis — quella tribolazione ch’è di presente », perchè se tu della tribolazione riguardi ciò ch’è passato, già non dà pena; e così nemmeno accade porlo in discorso. Se riguardi ciò ch’è presente, id quod in praesenti est, che cosa è? momentaneum et leve, è un male sì, ma momentaneo, cioè breve assai, massimamente se tu lo paragoni all’eternità: e insieme è leggiero, leggiero rispetto alle colpe ch’hai da scontare, leggiero rispetto alla grazia, che ti è somministrata per tollerarlo, leggiero rispetto al premio, che ti è apprestato, se pazientemente lo tolleri.
II.
Considera però sopra tutto, quanto sarà grande quel bene, che questo poco di male ti frutterà: Supra modum, in sublimitate. Supra modum perchè sarà smisurato, ch’è quanto dire superior di gran lunga a tutti i tuoi meriti. Atteso che quantunque dicasi, che il Signore « reddet unicuique juxta opera sua — premierà ciascuno secondo le sue opere », quel « juxta — secondo » non dinota eguaglianza di quantità, sicchè ciascun tanto goda precisamente quanto ha patito; ma dinota eguaglianza di proporzione, sicchè chi ha patito più, goda più. In sublimitate, perchè non sarà un bene qual è quello di questa terra, soggetto a varie vicende; ma sarà collocato sopra la cima del vero Olimpo, immutabile, imt perturbabile; « Sustollam te super altitudinem terrae. — Ti innalzerò sopra ogni elevazion della terra » (Isaia 58, 14), dove non giungerà male alcuno. Oltre a ciò sarà eterno, aeternum, che si oppone al momentaneo; e sarà a guisa di un gravissimo peso, pondus, che si oppone al leggiero. Queste sono le quattro prerogative, che singolarmente ha la gloria del Paradiso; l’essere soprabbondante, l’esser inalterabile, l’essere eterna, l’essere ponderosa.
III.
Considera per qual ragione una gloria tale, che finalmente è la chiara vision di Dio, sia chiamata peso. Non già perchè ella debba a veruno riuscir mai di gravezza, atteso che dopo milioni di secoli sempre sarà come nuova, graditissima, giocondissima; ma perchè contiene un diletto così eccessivo, che se l’umana virtù non fosse rinvigorita da quella forza, che le porge il lume di gloria, vi rimarria tosto oppressa. Se pure non si vuol dire, ch’è come il peso, perchè come il peso tira a sè tutte le cose, che a sè ha soggette, così quella gloria tirerà a sè tutto il Beato di modo, che non potrà questi resistere a sì grand’impeto, e converrà, che con tutte le sue potenze gli tenga dietro e quanto all’ anima, e quanto all’istesso Corpo, divenendo tutto glorioso.
IV.
Considera, che non si dice, che la tribolazione ti recherà tanta gloria, ma che attualmente te l’opera in te medesimo, operatur in nobis, quantunque non come cagion fisica, ma morale; e non come efficiente, ma meritoria. Dal che devi alla fine restar chiarito, che questa gloria medesima non è dono, come alcuni vorrebbono, ma mercede, ancorchè sia mercede soprabbondante. Figurati però, che come il Signore pose già Adamo nel Paradiso terrestre, « ut operaretur illum — afilnchè lo lavorasse » (Genesi 2, 15); così pone anche in te la Tribolazione, la Povertà, l’Ignominia, l’Infermità, perchè lavori in te un Paradiso, ma assai migliore, qual è il Celeste. Lasciala però lavorare, perchè quanto ella in te produce di merito con molestarti, tanto otterrai di mercede. Non sarebbe stolta la terra, se si dolesse di quel lavoratore poco pietoso, che colle marre, colle vanghe, co’ vomeri la maltratta?
V.
Considera, qual è il mezzo che ha da giovarti a patire di buona voglia quei trattamenti, che dalla Tribolazione ricevi. Contemplare quei beni finora detti che non si veggono, cioè dire i beni Celesti. Oh quanto la speranza di essi ti animerà! Ma non basta dar loro di tanto in tanto quasi un’occhiata, è di necessità contemplarli, cioè mirarli con singolare attenzione. Anzi neppur basta ciò, ma fa di bisogno non contemplar nel medesimo tempo quei che si veggono, cioè dire i beni terreni, perchè la vista di questi rapisce l’anima, la distrae, la diverte, sicchè non sia tutta in quelli. Però non dice « contemplantibus nobis, quae non videntur — contemplando noi ciò che non si vede », ma dice « non contemplantibus nobis, quae videntur, sed quae non videntur — non contemplando noi ciò che si .vede, ma ciò che non si vede », fissa ambidue gli occhi in Cielo.
VI.
Considera quanto è giusto, che tu contempli i beni Celesti, e non contempli i beni terreni, mentre quelli sono eterni, e questi son transitorii: quae enim videntur temporalia sunt, quae non videntur aeterna. Vuoi dunque tu fermarti tanto a mirare cose, che passano? Tu ridi di quel villano, che se ne sta quasi attonito a contemplare un fiume che corre con somma velocità. Ma di’ : che sono tutti i beni visibili? Son altro ferse, che simili ad un tal fiume? Lasciali andare.