La Manna dell’Anima - Lectio divina - P. Paolo Segneri

LUGLIO

 

XII. GIORNO

Quanto sia necessario il custodire gli occhi, essendo questi le strade principali per cui entrano nel cuore le tentazioni.

 

«Pepigi foedus cum oculis meis ut ne cogitarem quidem de Virgine, quam enim partem haberet in me Deus desuper, aut haereditatem Omnipotens de Excelsis? — Conchiusi triegua cogli occhi miei, affin di non pensare neppur d’una Vergine, poichè qual parte avrebbe in me Dio dall’alto, o quale eredità l’Onnipotente dal Cielo? » (Giobbe 31, 1).

 

I.

Considera, che ciò che il Santo Giobbe ha preteso con le parole qui addotte, è stato di far palese la risoluzione fermissima ch’egli avea di tenersi ben lungi dai guardi impuri, per non incorrer pericolo di dannarsi. Ma perchè posto ciò, non fu contento di dire: « Pepigi cum oculis meis — Ho conchiuso cogli occhi miei », ma disse « Pepigi foedus — Ho conchiuso triegua »? Fcedus ha doppio significato. Talor significa lega, e talor triegua. Qui senza dubbio non potè trattarsi di lega, perchè il Santo Giobbe non volea collegarsi co’ suoi occhi a vedere, ma volea concordare di non vedere. Rimane adunque che si trattasse di triegua, ch’è cessazione. Ma perchè usar questa formola? Per tre capi. Prima, affinchè tu sappia, che i tuoi occhi a te per altro sì cari, son tuoi nimici capitalissimi. La triegua non si fa con gli amici, come la lega, ma co’ nimici : e si fa quando si teme ancor da essi qualche gran male, se non si arrestano quanto prima dal corso delle vittorie. Oh che gran male possono recare a te gli occhi tuoi se non gli reprimi per tempo! Ti possono ridur l’anima all’ultima schiavitudine ch’ella provi, ch’è la libidine: « Statim captus est in suis oculis Holofernes. — Restò preso Oloferne alla prima occhiata » (Giuditta 10, 17). Secondo, affinchè tu sappia, che gli occhi non solo sono nimici tuoi capitali, ma sono ancora i nimici principalissimi. La triegua non si conchiude coi soldati dell’esercito, si conchiude coi Capitani : e tali sono gli occhi. Essi son che introducono nel tuo cuore il grosso di quei soldati, che ti abbattono; voglio dir de’ pen’sieri. E però tu fa triegua con gli occhi. Se la vorrai far coi pensieri, e con gli occhi no, farai appunto come chi conchiude la triegua co’ fanti dell’esercito, e non la conchiude coi Capi. Terzo, affinchè tu sappia degli occhi tuoi, che non hai mai da fidartene interamente. Quando con gl’inimici si è fatta pace, già ognuno si fida di loro, come di amici : ma quando solo si è fatta triegua, non già; si siegue ancora a tener le milizie ai posti, le munizioni al paese, poco meno di quando ardeva la guerra. Con gli occhi non potrai mai fare perfettamente pace, finchè non si chiuderanno : sol puoi far triegua; e però mai non devi affatto fidartene, benchè ti piia ch’essi già non ti rechino più molestia. Son traditori. Diranno, se vuoi, di prometterti pace eterna : ma non è vero; tra poco la romperanno: e però di’ pure a’ tuoi occhi, che non vuoi mai con essi una pace tale, che ti obblighi a depor l’arme. Queste son le tre ragioni, per cui il Santo Giob, volendo esprimere la risoluzione ch’egli aveva di tenere i suoi guardi a freno, ha voluto usar questa formola più d’ogni altra : « Pepigi foedus cum oculis meis, etc. — Conchiusi triegua cogli occhi miei, ecc. ». Tu sappiale tutte e tre tirare da te medesimo a tuo profitto.

II.

Considera, che mentre qui favellasi d’una triegua, la quale consiste in cessazione da’ guardi, parea che Giob dir dovesse: « Pepigi foedus cum oculis meis, ut ne aspicerem — Conchiusi triegua cogli occhi miei, affine di non guardare », non dire: « ut ne cogitarem — di non pensare ». Perchè quantunque sia vero, che il più delle volte gli occhi introducono nella mente i pensieri, che sono il grosso dell’esercito; contuttociò non gli introducono mai, se non solo mediante i guardi, che sono per così dire le loro scorte, le loro spie, le loro vanguardie : e conseguentemente parea, che Giobbe in un patto di sì grande importanza dovesse includere non solamente i pensieri, ma ancora i guardi; anzi prima includere i guardi, appresso i pensieri. E chi mai ne dubita? Gl’incluse, ma non gli espresse; perchè stimò che questo fosse superfluo: già s’intendea. Chi incluse il grosso dell’esercito, che dee cessare da ogni atto di ostilità, qual dubbio ci è che include ancora le scorte, ancora le spie, ancora le vanguardie, che sempre gli vanno innanzi, ancorchè non l’esprima con forma esplicita? Però quando Giobbe disse: « ut ne cogitarem — di non pensare », disse per conseguente ancora: « ut ne aspicerem — di non guardare ». Se pure non vogliam credere, che dicesse « ut ne cogitarem — di non pensare », allora ch’egli dovea dire « ut ne aspicerem — di non guardare », perchè giudicò, che il pensare e il guardare non si distinguessero : son tutt’uno. Oh quanto è certo, che sottentra il pensiero, passato il guardo! Van sempre uniti: « Secutum est oculos meos cor meum. — Dietro ai miei occhi se ne andò il mio cuore » (Giobbe 7, 31). Tanto fu dunque il dire « ut ne cogitarem — di non pensare », quanto sarebbe stato il dire « ut ne aspicerem — di non guardare ». Contuttociò volle Giob dire piuttosto « ne cogitarem — di non pensare », che dire « ne aspicerem — di non guardare », perchè si sapesse di qual sorta di guardi intendea parlare: de’ guardi fissi. Un guardo fortuito non potea di ragione venire in patto. Conciossiachè quali sono quei Capitani, che possano far sì, che nessun Soldato in tempo di triegua trascorra senza lor ordine ad attentare qualche atto ostile? basta sol che no ‘l permettano. In patto poteano venir bensì tutti i guardi che si appellano volontarii. E perchè Giobbe di questi intendea trattare, però disse piuttosto « ne cogitarem — di non pensare », che dir « ne aspicerem — di non guardare ». Quando la mente pensa di proposito alle cose, si dice, ch’ella le vede; e così per contrario quando gli occhi le mirano di proposito, si dice, ch’essi le pensano : «Verunitamen oculis tuis considerabis. — Ma tu co’ propri occhi osserverai » (Salmo 91, 8). E questi sono ordinariamente quei guardi, che recano danno all’anima, i volontarii. Che fai tu dunque, che quando a caso t’incontri a vedere un oggetto pericoloso, ti fermi in esso? Anzi cala di subito il guardo a terra; perchè fin a tanto che quel guardo è fortuito, egli è puro guardo; com’è volontario, non è più guardo, è pensiero : « Pepigi foedus cum oculis meis, ut ne cogitarem quidem de Virgine. — Conchiusi triegua cogli occhi miei affine di non pensare neppur d’una Vergine ».

III.

Considera, che questa timidità di Giobbe può apparir troppo scrupolosa, mentr’egli aggiunge « de Virgine — di una Vergine ». Perchè se volea salvarsi da sguardi ostili, cioè da quei che poteano indurlo al male, gli dovea bastare, che gli occhi si astenessero dal mirare una donna vana; ma non così dal mirare una Verginella, che tutta chiusa in se stessa, pura, pudica, spira dal suo volto un’altissima verecondia. Oh quanto t’inganni! Il guardo ancor di una simile Verginella può essere talvolta a te pernicioso, quanto quel di una donna vana. « Virginem ne conspicias, dice l’Ecclesiastico, ne forte scandalizeris in decore illius. — Non mirare alcuna Vergine, affinchè non resti scandalizzato dalla sua beltà » (Ecclesiastico o Siracide 9, 5). Hai notato? Non dice « ne forte scandalizet te in decore suo — affinchè non ti dia scandalo colla sua beltà », ma dice « ne forte scandalizeris in decore illius — affinchè non resti scandalizzato dalla sua beltà », perchè una Verginella, la qual vada sì chiusa, come or si disse, pura, pudica, non ti darà scandalo alcuno con la sua beltà, in decore suo, come te lo dà una femmina vana : ma tu lo riceverai da lei, quantunque ella non te lo dia. Che importa però a te, che lo scandalo non sia attivo, mentre è passivo? Questo solo basta a dannarti. Anzi non è mai lo scandalo attivo nel caso nostro, quel che ti danna; sempre è il passivo. Non è quello che ti è dato: è quello che tu ricevi: e però disse Giob: « ut ne cogitarem quidem de Virgine — di non pensar neppur d’una Vergine ». Quindi è, che neppur disse Virginem, ma de Virgine, perchè non solo non volea veder essa, ma niente d’essa, ch’è quanto dire, non volea rimirare niente di ciò, ch’ella avesse attorno : aliquid de Virgine. E non sai tu, che a rapir gli occhi di Oloferne, bastarono fin le scarpe d’una Giuditta, non che i capelli? Sandalia ejus rapuerunt oculos ejus. Adunque la cessazione da guardi tali vuol essere totalissima. Così la triegua è sicura : altrimenti no: includi in essa tutti affatto i nemici: non solo i dichiarati, ma quegli ancora che non son più che sospetti. Quei guardi che ti sembravano disarmati, se non vi badi, caveran tosto lo stilo che or sanno sì ben celare, e ti assalteranno, per far di te cruda strage.

IV.

Considera, che se questi guardi non fossero sufficienti a recarti una strage tale, non avrebbe Giobbe detto sì chiaramente : « Quam enim partem haberet in me Deus desuper, aut haereditatem Omnipotens de excelsis? — Qual parte avrebbe in me Dio dall’alto, o quale eredità l’Onnipotente dal Cielo? ». Mentre dunque egli disse così, tieni per fermo non v’esser male, che a te non possa avvenire da tali guardi. Questi soli bastano a fare che Dio in te non abbia più parte di alcuna sorta : Quam enim partem haberet in me Deus desuper? E per qual ragione? Perchè ti ruberan tutto a Dio. A tali guardi succederanno, come già fu detto, i pensieri; e questi a Dio toglieranno di subito la tua mente: ai pensieri succederanno i compiacimenti, e questi a Dio toglieranno tutti i tuoi appetiti inferiori, e tutti i tuoi affetti : ai compiacimenti succederanno i consensi, e questi a Dio toglieran la tua volontà: ai consensi succederanno le operazioni, e queste a Dio toglieranno i tuoi sensi esterni. Ed ecco, che quel Signore, il qual dovrebbe posseder tutto te, come tuo Padrone assoluto, non ha più di te parte alcuna: anzi non ha più parte nemmeno in te, perchè non sa donde entrare a parlarti al cuore. Questo è il pessimo male della libidine; occupa tutto l’uomo, sicchè Dio non può penetrarvi. Dammi uno dato a un tal vizio: vedrai, che non solo non ammette più Dio nel cuore, ma teme, che Dio non v’entri da se medesimo; teme ogni ispirazione, che lo possa troppo rapire a lasciare il suo caro oggetto, tanto ama di non lasciarlo; teme prediche, teme Chiese, teme Chiostri, teme ogni libro sagro, e in una parola teme, come frenetico, la curazione da quel male, da cui dovrebbe procurar di guarire a qualunque costo: « Timebam ne me cito sanares a morbo concupiscentiae meae, quam malebam expleri, quam extingui. — Temevo di essere troppo presto risanato dal morbo della mia concupiscenza, che bramavo piuttosto fosse appagata anzichè estinta ». Ed ecco ciò che vuol dire: « Quam enim partem haberet in me Deus desuper? Poichè qual parte avrebbe in me Dio dall’alto? ». Perchè nemmeno Dio se ne può in un tal cuore venir dall’alto con le sue ispirazioni, le quali son le più facili a penetrare anche a porte chiuse: e se pure Iddio siegue ad aver parte in un tal cuore « deorsum — al basso », come autore della Natura; non I’ ha più « desuper — dall’alto », come autor della grazia.

V.

Considera, che neppur tutto il male finisce qui: perchè se questo vizio della libidine lasciasse che Dio possedesse l’uomo almeno dono morte, parrebbe più tollerabile. ancorchè gliel rubasse in vita : ma il peggio è, che non glielo lascia più nè in vita, nè in morte. E però dopo aver detto: « Quam enim partem haberet in me Deus desuper — Poichè qual parte avrebbe in me Dio dall’alto », seguita Giobbe a dire: « et haereditatem Omninolens de excelsis? — e quale eredità l’Onnipotente dal Cielo? ». Il partecipare de’ beni d’uno, è proprio mentr’egli vive; l’ereditarli è proprio poichè egli è morto, Ora la libidine non lascia che Dio neppur ti abbia ad ereditare, perchè è facilissimo che ti faccia morir così impenitente come tu vivi; e la ragion si è perchè questo è un male, che di attuale passa assai più d’ogni altro in abituale .. ed eccoti pervenuto alla morale impossibilità di salvarti. Perciocchè l’ordine, che tengon gli occhi nel dare all’anima una sconfitta totale, è questo ch’hai già cominciato ad udire nel quarto punto. Sospingono innanzi i guardi, i guardi tirano immantinente i pensieri, i pensieri i compiacimenti, i compiacimenti i consensi, i consensi le operazioni, che sono quelle che finiscono di rubare a Dio l’uomo vivo. Alle operazioni succede la consuetudine, alla consuetudine la necessità, alla necessità la diffidenza di potere più uscire da un tale stato, alla diffidenza la dannazione, che finalmente ruba a Dio l’uomo morto. Ed ecco che Dio, come dice Giobbe, nè ti partecipa, nè ti eredita, e se pure ti eredita, non ti eredita almeno « de excelsis — dal Cielo » : perchè Dio sta da per tutto : tanto sta nell’ Inferno, quanto sta nel Cielo : « Si ascendero in Coelum, tu illic es, si descendero in lnfernum, ades Se salirò al Cielo, ivi sei tu; se scenderò nell’Inferno, tu sei presente » (Salmo 139, 8), e però nel caso nostro ti eredita « Omnipotens de profundo — l’Onnipotente dall’Inferno » con la giustizia, ma non ti eredita « Oninipotens de excelsis — l’Onnipotente dal Cielo » con la misericordia. Questo si scorge succedere tutto dì. Ond’è, che un vizio tale più ancora di qualunque altro colma gli abissi. E posto ciò, non ti pare che Giobbe avesse una ragion somma, quando egli proruppe in dire : « Pepigi foedus cum oculis meis, ut ne cogitarem quidem de Virgine — Conchiusi triegua cogli occhi miei, affine di non pensare neppur d’una Vergine »? Vedeva quanto importasse non permettere agli occhi alcun atto ostile, perchè permessolo si dava già per perduto : « Oculus meus depredatus est animam meam. — L’occhio mio è stato nemico della mia vita » (Lamentazioni 3, 51). E se ne temeva anche un uomo di virtù altissima, che devi far tu, che sei inclinato al male?

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