La Manna dell’Anima - Lectio divina - P. Paolo Segneri

AGOSTO

 

XI. GIORNO

Della vanagloria.

«Si quis existimat se aliquid esse, cum nihil ipse se seducit. — Se alcuno crede di essere da sè qualche cosa, mentre non è che un puro niente, egli inganna se stesso » (Lettera ai Galati 6, 3).

 

I.

Considera, che se si capisse ben questo detto, che ti propone qui l’Apostolo a contemplare, sarebbe al Mondo cessata la vanagloria. Donde avviene, che tanti s’insuperbiscano ogni dì più? « Superbia eorum qui te oderunt, ascendit semper. — Sempre cresce la superbia di coloro, che ti odiano » (Salmo 74, 23). Perchè ogni dì più divengon ciechi a conoscere se medesimi. Stimano dentro sè di esser da se medesimi qualche cosa, mentre per verità sono un puro niente. Odi però la intimazione generale, che abbraccia tutti : « Si quis existimat se aliquid esse — Se taluno, sia chi si vuole, crede di essere da sè qualche cosa », non dice « aliquid magni — tue qualche cosa di grande »; no; dice: « aliquid — qualche cosa » puramente; « Si quis existimat se aliquid esse, cum nihil sit, ipse se seducit — Se taluno crede di essere da sè qualche cosa, mentre non è che un puro niente, egli inganna se stesso ». Questa dunque è l’altissima verità, che devi un giorno finire di persuaderti, che tu da te non sei che un nulla: Nihil es. E per qual ragione? Perchè tu da te non hai nulla, fuorchè il peccato, ch’è il sommo nulla. Tutto ciò, che possiedi, fuor del peccato, tutto è da Dio. Questo è il modo di conseguir la vera umiltà, sprofondarsi in tal cognizione. Perchè, quantunque l’essenza dell’umiltà sia riposta nella volontà, che si abbassa modestamente; contuttociò la volontà non da altri prende la regola di abbassarsi fino ad un segno, or maggiore, or minore, che dall’intelletto.

II.

Considera, che in primo luogo puoi riguardarti nel puro tuo naturale; ed in tale stato « si existimas te esse aliquid — se credi di essere da te qualche cosa », tu t’inganni, perchè da te « nihil es — sei un puro niente ». « Nihil es — sei un puro niente » quanto all’essere, e « nihil es — sei un puro niente » quanto alle operazioni, che come proprie procedono da un tal essere: « Ubi est ergo gloriatio tua? — Ov’è dunque il tuo vanto? » (Lettera ai Romani 3, 27). Se miri l’essere, tu quanto a te sai ciò che sii di presente? Ciò ch’eri già tanti secoli innanzi che tu nascessi. Contemplati in quel profondo. Oh che cupo abisso! Più che vai là ricercandoti tra quelle ombre, tra quegli orrori, men sai ritrovarti. Quello però ch’eri da te, tanti secoli innanzi che tu nascessi, quel sei pur ora, sei puro niente; perchè da te niente sei. Se sei, sei solo, perchè Dio ti ha donato l’essere, e te ‘l mantiene. Adunque se sei così, tu da te non sei. Dirai tu forse, ch’abbia da sè verun essere quella immagine, la qual è nello specchio, ancorchè tanto al vivo ella rappresenti la tua persona? No di certo. E per qual cagione? Perchè da te ha una dipendenza totale. Come tu rivolti le spalle, ella è già svanita. Così è di te quanto a Dio, di cui appunto tu sostieni l’immagine, ma reale, non apparente; « Ad imaginem quippe Dei factus est homo — Poiché l’uomo è creato ad immagine di Dio ». Fa ch’egli appunto sottragga da te la sua faccia, ecco che torni subito al primo nulla: « In nihilum redigam te, et non eris, et requisita non invenieris ultra in sempiternum, dicit Dominus Deus. — Io ti ridurrò al niente, e più non sarai, nè cercandoti alcuno ti ritroverà più, dice il Signore Iddio » (Ezechiele 26, 21). Che se miri le operazioni, le quali come proprie procedono da un tal essere, di chi sono? Sono di chi appunto ti ha donato un tal essere, e tel mantiene. I frutti di un bell’albero di chi sono per tua sentenza? Del ramo, che gli produce immediatamente, o della radice, che dà l’essere ancora all’istesso ramo? Se da te non hai niente nell’essere, dunque nemmeno hai da te niente nell’aperare: « Ecce vos estis ex nihilo — Voi siete dal nulla », e in conseguenza « opus vestrum ex eo quod non est — il vostro essere viene da ciò, che non è », cioè « ex eo quod non est vestrum — da ciò, che non è vostro ». Qual operazione più bella di quella, che fa l’ombra di uno stilo solare ben regolato, additando l’ora senza mai commettere un fallo? Contuttociò nessuno l’ascrive all’ombra ; l’ascrive al sole, da cui tal ombra dipende. Ma tu così dipendi ancora da Dio. Altra differenza non è fra quell’ombra, e te, se non che quella fa le operazioni sue non volendole, e tu volendole. Ma questo valer medesimo vien da Dio, che da principio ti die’ la potenza libera, e che poi sempre concorre di mano in mano a ciascun atto volontario che fai, benchè con un corso proporzionato a una tal potenza, ch’è quello, il quale ti dà forza a operare, ma non ti sforza. E s’è così: « Ubi est ergo gloriatio tua? — Ov’è dunque il tuo vanto? ». Chiunque dipende da un altro nello stato suo naturale, da sè non è; però disse l’Apostolo : « Si quis existimat se aliquid esse (s’intende a se), cum nihil sit, ipse se seducit — Se taluno crede di essere qualche cosa (s’ intende da sè), mentre non è che un puro niente, egli inganna “se stesso » : perchè, a dire la verità, quegli sol è, che ha l’essere da se stesso : « Ego sum qui sum — Io sono quegli, che sono », cioè « qui sum a me ipso — che sono da me medesimo ». Ch’è quella bella dottrina, che pur diede alla diletta sua Catterina da Siena, quando egli dissele : Sai che differenza v’è da me a te? « Io sono quegli che sono: tu sei quella che non sei : Ego sum qui sum, tu es quae non es »: cioè « quae non es a te ipsa — che non sei da te medesima », e così : « non es — non sei ».

III.

Considera, che in secondo luogo puoi rimirarti nello stato di grazia. Ed in tale stato puoi forse concepire più agevolmente veruna stima di te, con dir tu ancora : « Non sum sicut ceteri hominum— Non sono come gli altri uomini »? Tutto il contrario. Se in questo « existimas te esse aliquid — credi di essere da te qualche cosa », pigli errore più che nel primo, perchè è più chiaro, che tu da te « nihil es — sei un puro niente ». Se questo è stato di grazia, dunque il vocabolo stesso ti manifesta, che qui per te v’è materia di ringraziamento sì bene, ma non di vanto. Eccone la ragione. Con tutti i doni, che sono in te di natura, puoi tu mai forse giugnere a fare un atto, il qual ti sia meritorio di vita eterna? Certo che no. Ci vuole a ciascun d’esso una grazia anche duplicata : la grazia abituale, e la grazia attuale : la grazia abituale, ch’è quella che ti fa giusto, e così ti dà la potenza di operar bene; e la grazia attuale, ch’è quella che ti fa operare da quel che sei, cioè da giusto, e ti dona l’atto. A veder bene, non basta che le pupille degli occhi sieno sanissime, ci vuole ad ogni oggetto, che si abbia a scorgere, il concorso pronto del lume. Così avviene nel caso nostro. Non basta che sana sia l’anima per la grazia abituale, ch’ella possiede, perchè ciò non fa più, se non che renderla sol possente a operare : ci vuole ad ogni operazion, che sia propria d’ un tale stato, il concorso pur ogni volta dell’attuale : « Ubi est ergo gloriatio tua? — Ov’è dunque il tuo vanto?». Forse ti vuoi attribuire la cooperazione, che presti ad una tal grazia? Ma come, se la tua cooperazione medesima è della grazia, con cui Dio teco concorre affinché cooperi? « Sine me nihil potestis tacere — Senza di me non potete fare cosa alcuna », disse Cristo. Non solo « non potestis facile facere — non potete fare facilmente », come volevano intendere i Pelagiani : ma « non potestis facere —non potete fare » in modo alcuno. Il lume non solo fa che le pupille veggano facilmente, ma fa che veggano. E così non solo al principio della vita spirituale hai bisogno d’una tal grazia, ma successivamente, ma seguitamente, ma sempre, fino all’ultimo fiato, che giammai spiri. Non v’è abito lungo da te contratto in operar santamente che sia mai bastante a supplirti in luogo di grazia. Fermati nell’esempio delle istesse pupille, ch’è il più espressivo. Per molto, che si sian elleno esercitate fin dal mattino a vedere con perfezione, tanto han poi bisogno di lume all’ultima ora del giorno, quanto alla prima, se pur non vogliono rimaner di vedere. Al passo che manca il lume, manca la vista. E così tu, se non vuoi rimanere di operar bene, hai nell’istesso modo bisogno fino all’ultimo della grazia. E per qual cagione? Perchè da te non puoi nulla : « Omnis eufficientia nostra ex Deo est — Ogni nostra idoneità è da Dio ». E conseguentemente, da te che sei nello stato di grazia? Sei puro niente: « Si quis existimat se aliquid esse, cum nihil sit, ipse se seducit — Se taluno crede di essere da sè qualche cosa (in un tale stato), mentre non è che un puro niente, egli inganna se stesso ».

IV.

Considera, che in terzo luogo puoi rimirarti nello stato infaustissimo di peccato : ed in tale stato, « si existimas te aliquid esse — se credi di essere da te qualche cosa », già tu sei folle, perchè non solo sei niente, ma men di niente. E la ragion è, perchè sei ridotto a uno stato peggior del niente: « Bonum erat ei, si natus non fuisset homo ille. — Era bene per lui, se non fosse mai nato quell’uomo » (Vangelo di Matteo 26, 24). Questo è uno stato, che in te vien tutto da te, e però è peggiore del niente, perchè da te non puoi far altro che male. E così a te non torna conto di essere, se devi avere questo esser ch’è da te, ti torna conto molto più di non essere: « Ubi est ergo gloriatio tua? — Ov’è dunque (in un tale stato) il tuo vanto? ». Ti glorii forse dell’ingegno che adoperi nel peccare, della sagacità, dello spirito, come fanno tutti coloro, i quali « sapientes sunt ut faciant mola. — Sono sapienti al mal fare »? (Geremia 4, 22). Ma queste doti vengono tutte da Dio: tu altro più non fai d’esse, fuorchè abusarne. Quello, che di tuo si  ritrova nell’atto peccaminoso, altro mai non è se non che la pura malizia. E tu per questa vuoi riputarti da molto? Anzi questa è l’unica cosa che di ragion dee confonderti sulla Terra. La povertà, l’ignobilità, l’incapacità non sono per se stesse materia di confusione, perchè non sono da te. Materia di confusione è a mirar bene la sola malvagità, che da te procede: « Erubescite super viis vestris, domus Israel — Vergognatevi de’ vostri costumi, o casa d’Israele ». Chi può dire però quanto hai da confonderti, qualor mettendoti innanzi gli occhi il gran cumulo de’ peccati da te commessi, puoi dire per verità: « Iniquitates meae supergressae sunt caput meum — Le mie iniquità sormontarono la mia testa » ! Pensavi: quante sono di commissione, e quante ancora più di ommissione I La vita tua non sarà stato altro forse fino a quest’ora, se non che un peccato continuo. Perchè dunque in un tale stato non ti è desiderabile di non essere totalmente? Sai perchè? Per un capo solo : ch’è per poter uscir con la penitenza da un tale stato. Tolto ciò non ha dubbio, che più dovresti desiderar di non essere. Al dannato l’essere è dato in pena : « Luet quae fecit omnia, nec tamen consumetur. — Pagherà il fio di tutto quello che avrà fatto, né però sarà consunto » (Giobbe 20, 18). Adunque al dannato l’essere, convien dire, che sia peggior del non essere. Tal è il mio fermo parere. Ma ciò succede egualmente nel caso nostro. Iddio può dare in pena anche l’essere a un peccatore, ch’è sulla Terra, s’egli prevede, che non ha da valersene per pentirsi, ma per seguire a peccare. Adunque un tal peccatore, che vuol seguire sulla Terra a peccare, e non vuol pentirsi, ancor egli ritrovasi in uno stato peggior del niente, mentre ancor egli ritrovasi in uno stato, il qual è peggior del non essere: « Melius est non esse, quam male esse. — E’ meglio non essere, che mal essere ».

V.

Considera, che fin qui hai veduto il niente assoluto, che in te si trova. Resta che tu vegga ora il niente comparativo, cioè quel niente, che spicca più, perchè guardasi al paragone. Mettiti a dirimpetto di quei gran Santi, che regnano in Paradiso: degli Apostoli, de’ Patriarchi, de’ Profeti, de’ Martiri, e di tanti altri spiriti sublimissimi, che come te vissero già sulla Terra, ma tanto meglio di te: che ti par d’essere alla loro presenza? ti ritrovi? ti riconosci? « Existimas te esse aliquid — Credi di essere qualche cosa »? Non può far, che già non cominci nella tua stima almeno ad impicciolirti più di un pigmeo posto innanzi a un esercito di giganti: « Respiciet homines, et dicet: Peccavi, et vere deliqui, et ut eram dignus non recepi. — Rivolto agli uomini dirà egli: io peccai, e prevaricai veramente, e non fui punito, come io meritava » (Giobbe 33, 27). Passa più oltre, e trascorri già tutti gli ordini dell’Empireo, fermati al trono .della Santissima Vergine, la quale avanza tutti i Santi ora detti, quanto i Santi medesimi avanzan te: « Mons in vertice montium. — Monte sopra la cima de’ monti » (Isaia 2, 2). Che ti rimanpiù quivi di te medesimo? Ecco che già ti vedi quasi sparito, qual granello di arena in faccia all’Olimpo. Ma neppur quivi è dovere, che ti fermi. Sollevati ancora più alto. Va fino al sommo cospetto di Dio medesimo, e quivi appena miratolo, cala gli occhi a veder che sei. Oh quivi sì, che del tutto già tu sei nulla, più che non è una piccola favilluzza rimpetto al sole. Se al suo cospetto niente appariscono tutti a un tratto gli Apostoli, niente i Patriarchi, niente i Profeti, niente i Martiri, niente tutti gli altri Santi messi insieme con la sua Santissima Madre: « Omnes gentes, quasi non sint, sic sunt coram eo —Tutte le genti sono dinanzi a lui, come se non fossero » (Isaia 40, 17); che sarà di te miserabile peccatore? Non ti sembra già d’essere ritornato a quel primo nulla, in cui sei stato sepolto un’Eternità? E come dunque può caderti in pensiero d’insuperbirti ancora dinanzi a Dio, con far più conto di te, che della sua Legge? Ecco dunque ciò ch’hai da fare. Tener vivo nell’animo questo niente, prima assoluto, e poi, se ciò non ti basti, comparativo. Allora sarà impossibile, che ti stimi più d’esser qualche cosa : esse aliquid: perchè ciò sarebbe un voler traveder anche a lume di mezzogiorno. Benchè per questo appunto dice l’Apostolo : « Si quis existimat se aliquid esse, cum nihil sit, ipse se seducit — Se taluno crede di essere da sè qualche cosa, mentre non è che un puro niente, egli inganna se stesso »; perchè chi ha stima di sè, s’inganna solo, perchè si vuole ingannare : « Non seducitur — Non resta ingannato » : no, ma « ipse — egli » da se medesimo « se seducit — inganna se stesso » : tanto il suo inganno è palpabile, e pur lo vuole.

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